di LUIGI GIRLANDA
È notte a Gerusalemme. Mentre la città si prepara alla Pasqua, una riunione segreta si svolge nei pressi del Tempio. Non ci sono soldati romani, né proclami imperiali. Qui, tra tuniche sacerdotali e discussioni sussurrate, si decide il destino di un uomo. Un uomo che ha camminato per le strade della Galilea, ha guarito malati, ha parlato con autorità. Un uomo che, secondo molti, è il Messia.
A guidare quella riunione non è un politico né un comandante. È un sacerdote. Uno che conosce bene la Legge, e ancor meglio i meccanismi del potere. Si chiama Giuseppe, detto Caifa, ed è il sommo sacerdote in carica. A lui spetta l’onere di condurre il processo più controverso della storia: quello al Nazareno. È lui a prendere la decisione più netta, più fredda, più lucida: «È meglio che un uomo solo muoia per il popolo e non vada in rovina la nazione intera» (Gv 11,50). Una frase che ha attraversato i secoli.
Il volto del potere religioso
Caifa non è un improvvisato. È a capo del sacerdozio da quasi vent’anni, un record assoluto per l’epoca, quando Roma nominava e rimuoveva i sommi sacerdoti con grande rapidità. Caifa è riuscito a mantenere il suo posto grazie alla sua abilità politica e ai suoi legami. Il più solido? Quello con Anna, suo suocero, sommo sacerdote a sua volta e vero regista occulto del potere religioso a Gerusalemme.
Non è un caso se, dopo l’arresto, Gesù viene portato prima da Anna e solo in seguito da Caifa (Gv 18,13-24). È un dettaglio che dice molto: l’apparenza e la sostanza del potere non coincidono sempre. Anna controlla, Caifa esegue. Intorno a loro, una dinastia sacerdotale che ha trasformato la religione in una macchina perfetta di controllo.
Prove archeologiche confermano l’importanza storica di questa figura: nel 1990, nella Valle di Silwan a Gerusalemme, fu scoperto un ossario con l’iscrizione “Yehosef bar Qayafa” (Giuseppe figlio di Caifa), ritenuto da molti studiosi appartenente proprio al sommo sacerdote menzionato nei Vangeli, testimonianza tangibile della sua esistenza storica.
Il sommo sacerdote: tra culto e politica
Nel giudaismo del tempo, il sommo sacerdote era più di una figura liturgica. Era il vertice di una teocrazia strutturata, dove culto e politica coincidevano. Il sommo sacerdote non solo offriva sacrifici, ma rappresentava il popolo davanti a Dio e, allo stesso tempo, trattava con l’autorità romana. Una posizione delicata, che richiede equilibrio, astuzia e senso dell’opportunità.
Caifa queste doti le possiede. È l’uomo giusto per garantire la stabilità. Ma anche colui che, di fronte a un profeta scomodo, non esita a difendere l’istituzione, anche a costo della verità.
Lo storico Giuseppe Flavio, nella sua opera Antichità giudaiche, menziona Caifa confermando il suo lungo mandato (dal 18 al 36 d.C. circa) sotto l’autorità del prefetto romano Ponzio Pilato, un’alleanza strategica che garantisce stabilità ad entrambi i poteri.
Il Sinedrio e il processo nella notte
Caifa presiede il Sinedrio, il consiglio supremo composto da 71 membri: farisei, sadducei, anziani e scribi. È un’assemblea autorevole, ma privata di potere esecutivo sulle pene capitali. Per questo, ciò che accade quella notte è decisivo: un processo religioso, finalizzato a costruire un’accusa forte da portare all’autorità romana.
Il processo a Gesù avviene in modo irregolare, frettoloso, con testimonianze contraddittorie. Ma Caifa non aspetta. Pone una sola domanda chiave: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?» (Mc 14,61). La risposta è inequivocabile: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo» (Mc 14,62). È la scintilla. Caifa si straccia le vesti, accusa di bestemmia, e ottiene il verdetto: Gesù è reo di morte.
La legge ebraica proibiva i processi notturni per casi capitali, così come vietava condanne nello stesso giorno del processo. Questi dettagli evidenziano ulteriormente le irregolarità procedurali di quel giudizio affrettato.
Il vero motivo della condanna: la bestemmia
Il nodo sta tutto qui. Gesù non viene condannato perché è un ribelle, né perché minaccia Roma. La vera accusa è teologica: si è proclamato Figlio di Dio, ha identificato sé stesso con il Messia non come semplice uomo inviato da Dio, ma come Dio stesso fatto uomo. È una pretesa inaudita, che infrange tutte le aspettative del Messia nazionale, politico, restauratore d’Israele. Gesù si dichiara qualcosa di molto più grande. E questo, per i capi religiosi, è intollerabile. Il potere religioso non può sopportare un Dio che irrompe fuori dai suoi schemi, che non chiede permesso, che non si fa riconoscere secondo le categorie previste. Il processo a Gesù è, in realtà, il rifiuto di un Dio scomodo.
Un sacrificio necessario?
Non è la rabbia a muovere Caifa. È il calcolo. «È meglio che un solo uomo muoia per il popolo…» (Gv 11,50) dice con tono pragmatico. È la logica del sacrificio utile: eliminare il profeta per evitare disordini, conflitti, forse una repressione romana. Salvare il sistema, anche a costo dell’innocente.
Questa è la lezione tragica e attuale di Caifa: la verità può essere messa da parte per salvare l’equilibrio delle cose. Un equilibrio che, paradossalmente, si fonda proprio sull’eliminazione di colui che è la Verità in persona.
L’evangelista Giovanni (11,49-52) rilegge profeticamente queste parole, spiegando che Caifa le disse perché era Sommo Sacerdote, vedendo in esse un’inconsapevole profezia sul valore espiatorio della morte di Cristo per la salvezza dell’umanità: ciò che Caifa intendeva come calcolo politico diventa, nelle mani di Dio, strumento di redenzione universale.
Roma: un passaggio obbligato
Il Sinedrio non ha il potere di eseguire la condanna. Entra così in scena Ponzio Pilato, ma l’accusa deve cambiare: non si può parlare di bestemmia, davanti a un pagano. Si parla allora di sedizione, di un uomo che si è proclamato re (Lc 23,2). Un’accusa più comoda, più presentabile. Ma la genesi del processo è tutta interna a Israele. Roma è solo lo strumento, non il mandante.
Questa trasformazione dell’accusa da religiosa a politica rappresenta uno degli aspetti più significativi della strategia di Caifa, mostrando la sua abilità nel muoversi tra due sistemi di potere e due codici giuridici completamente diversi.
Dante non aveva dubbi
Se oggi il nome di Caifa è appena sussurrato, non era così per i cattolici di un tempo. Uno su tutti: Dante Alighieri. Nel canto XXIII dell’Inferno, il poeta colloca Caifa nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio, quella degli ipocriti: uomini di religione che usano la Legge per i propri scopi, piegando il sacro al potere.
La pena che Dante gli assegna è tremenda: Caifa è crocifisso a terra, con tre pali che lo inchiodano in posizione supina, come un altare rovesciato. Sopra di lui passano incessantemente gli altri dannati, vestiti di mantelli dorati all’esterno e di piombo dentro, simbolo della falsità. Il sommo sacerdote che ha messo in croce Cristo, finisce egli stesso crocifisso nel contrappasso più feroce.
Dante non si nasconde: lo nomina con chiarezza, lo denuncia senza tentennamenti, come hanno sempre fatto i veri cattolici, convinti che la verità vada detta, anche quando è scomoda.
Oggi invece si tace. Si tace per non urtare le sensibilità religiose, si tace per non disturbare il dialogo interreligioso, si tace quasi per scaricare la colpa sui romani, rappresentati da quel Pilato, anziché su chi non ha riconosciuto il Messia atteso, pur avendolo davanti.
Eppure, come ricordava San Pietro nel discorso del giorno di Pentecoste, rivolgendosi agli ebrei di Gerusalemme: «Quel Gesù che voi avete crocifisso, Dio lo ha costituito Signore» (At 2,36). Non lo disse per offendere, ma per convertire.
Forse oggi dovremmo tornare a parlare così.
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