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Dentro la Passione (3a puntata): Barabba, il brigante che il mondo preferisce a Cristo

di LUIGI GIRLANDA

Alba di un venerdì mattina di primavera, davanti al pretorio romano di Gerusalemme, si sta celebrando un processo farsa. La condanna a morte di Gesù di Nazareth è stata già decisa la notte prima dal Sinedrio, il supremo tribunale ebraico, che non aveva però il potere di eseguire una sentenza capitale senza l’autorizzazione dell’autorità romana. È per questo che Gesù viene condotto da Ponzio Pilato, governatore della Giudea: non per cercare giustizia, ma per ottenere una ratifica. Pilato interroga Gesù, ascolta le accuse e capisce in fretta che l’uomo che ha davanti non è un ribelle né un pericoloso sobillatore. Lo dice chiaramente, più volte: «Io non trovo in lui nessuna colpa». Ma Pilato è un politico, non un ingenuo. Sa che i capi del Sinedrio, pur di sbarazzarsi di Gesù, sono pronti a giocarsi una carta pesantissima: accusarlo davanti a Roma di aver protetto un uomo che si proclamava re dei Giudei e quindi nemico di Cesare. È per liberarsi da questa trappola che Pilato ricorre a una consuetudine giuridica praticata proprio in quei giorni di festa: il privilegium paschale, la possibilità cioè di liberare, per grazia, un prigioniero scelto dal popolo.

Il privilegium paschale: la mossa abile di Pilato

Pilato, come tutti gli uomini di potere, non è disposto a correre rischi inutili. Ha compreso che la posta in gioco è alta ed è certo  di aver trovato una via d’uscita elegante. Una mossa abile, politicamente astuta: rimettere la decisione nelle mani della folla. In fondo — ragiona Pilato — nessuno, tra la gente comune, potrà preferire un delinquente violento a un predicatore mite e conosciuto. Non dimentichiamo che Gesù, solo pochi giorni prima, era stato accolto da quella stessa folla con entusiasmo e canti durante il suo ingresso a Gerusalemme, nella domenica che poi la tradizione cristiana chiamerà delle Palme.

Il Governatore è convinto che, messi davanti alla scelta, gli ebrei preferiranno Gesù. E così, per liberarsi dall’impaccio e salvarsi da future accuse, si appella a quella consuetudine che gli stessi Vangeli ricordano con sicurezza: il privilegium paschale, la possibilità — attestata dalla prassi romana — di liberare, in occasione della Pasqua, un prigioniero a scelta del popolo. Non si trattava, come qualcuno ha scritto polemicamente, di una grazia accordata a un condannato a morte già giudicato in via definitiva. Solo Cesare avrebbe avuto un potere simile. I Vangeli non cadono in questa ingenuità: parlano sempre di prigionieri in attesa di giudizio. La scelta proposta alla folla è perfettamente coerente con la logica giuridica romana: fare gesti di clemenza, soprattutto per non esacerbare gli animi durante ricorrenze religiose ritenute particolarmente “pericolose” per Roma (e la Pasqua ebraica, memoriale della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, era senza dubbio la ricorrenza più temuta dai Romani a causa delle rivolte che poteva alimentare). Pilato spera, anzi è convinto, che la folla gli risolva il problema.

Ma chi contrapporre a Gesù? Qui entra in campo un nome oscuro, destinato a rimanere altrimenti ignoto. Un uomo di cui nessuna cronaca avrebbe parlato, di cui nessun ricordo sarebbe rimasto, se quel giorno non avesse incrociato — per caso o per destino — la vita di Gesù di Nazareth. Il suo nome era Barabba.

L’uomo che la storia avrebbe dimenticato

Vale la pena fermarsi su questo nome che, senza l’episodio evangelico, la storia avrebbe sicuramente dimenticato. Non era un bandito qualsiasi. Non era un ladro da strada. Era un uomo finito nelle carceri romane per sedizione e omicidio: cioè per rivolta politica e per sangue versato durante quella rivolta. Marco, Luca e Matteo lo dicono con chiarezza, seppure con accenti diversi. Giovanni lo chiama “brigante” — lestés in greco — un termine che in quel contesto indica non un delinquente comune, ma un combattente della resistenza ebraica contro l’occupazione romana.

Del resto, già il nome di Barabba è un programma. In aramaico Bar Abbàs significa “figlio del padre”. Non un cognome, ma un soprannome carico di significato messianico. Non solo. Alcuni antichi manoscritti tramandano che il nome completo di Barabba fosse addirittura Gesù Barabba. Due Gesù, davanti alla folla. Due “figli del padre”. Uno che annuncia un regno di pace, l’altro che lotta per un regno di questo mondo.

Se fosse stato davvero un’invenzione, come sostenuto da alcuni critici moderni, è davvero difficile pensare che gli evangelisti — impegnati a “costruire” la vicenda storica di Cristo — avrebbero scelto di attribuire al loro “cattivo” un nome così nobile per la mentalità giudaica. Se Barabba fosse stato un personaggio costruito per esaltare per contrasto la bontà di Gesù, gli avrebbero dato le tinte più fosche possibili: un bestemmiatore, un empio, un traditore, un criminale infame. Invece no. Barabba era, per molti suoi contemporanei, un eroe. O quanto meno un resistente. Uno che lottava — giusto o sbagliato che fosse — per la libertà di Israele. Ecco perché la sua presenza nei Vangeli è uno straordinario segnale di autenticità storica: un episodio che la comunità cristiana primitiva non aveva nessun interesse ad inventare, ma che era troppo noto e radicato nella memoria per essere taciuto o modificato.

Barabba, emblema eterno di una scelta che si ripete

La folla grida il suo nome e Barabba è lasciato libero. Quella scena — raccontata dai Vangeli con asciuttezza e sobrietà — è diventata talmente potente da entrare per sempre nell’immaginario collettivo. Ne è prova anche il celebre kolossal hollywoodiano del 1961, intitolato proprio Barabbas, con Anthony Quinn nei panni di quel prigioniero liberato dal popolo al posto di Cristo. Una vicenda così forte da continuare ad affascinare anche il cinema, la letteratura, l’arte. Ma ben prima che Hollywood se ne impossessasse, quella scena era già impressa nella memoria della storia come uno dei momenti più drammatici dell’umanità.

Perché quel giorno a Gerusalemme non fu solo la vittoria occasionale di un uomo su un altro. Fu la dimostrazione di come una folla — qualunque folla, in ogni tempo — possa essere plasmata, orientata, manovrata. Non c’è nulla di spontaneo nella scelta di Bar Abbàs. Lo ricorda espressamente Matteo: “I sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù” (Mt 27,20). È una folla che non ragiona. È una folla che ripete parole messe in bocca da altri. È il trionfo di quella manipolazione delle coscienze che ogni potere, in ogni epoca, ha cercato di esercitare.

Eppure, in quel clima di odio organizzato, emerge una frase terribile, che attraversa i secoli per la sua drammaticità e per la sua piena assunzione di responsabilità: “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (Mt 27,25). Non è la maledizione di un altro imposta dall’esterno. È la rivendicazione piena e consapevole di un atto. È la folla che si assume, pubblicamente, davanti alla storia e davanti a Dio, la responsabilità della scelta compiuta. Quella frase, tanto spesso fraintesa o usata in modo improprio nella polemica antigiudaica, è in realtà il culmine di una tragedia spirituale: l’uomo che rigetta la verità e ne accetta volontariamente le conseguenze.

E così Barabba se ne va. Libero. Scompare dalla scena. Non sappiamo più nulla di lui. Ma il suo nome resta. Perché è diventato — per sempre — l’emblema inquietante di ciò che accade quando la verità viene sacrificata sull’altare dell’interesse. Barabba rappresenta tutte le volte in cui il potere è riuscito a convincere il popolo a votare contro la giustizia. Tutte le volte in cui il consenso popolare è capace di preferire l’ombra alla luce, l’interesse alla giustizia, la violenza alla pace.

Barabba resta il simbolo eterno di quella scelta che continua a ripetersi. Ogni volta che il popolo — illuso, tradito, sedotto — preferisce ciò che gli è più comodo a ciò che è vero. Perché alla fine, la storia di Gerusalemme non è solo un ricordo. È un avvertimento. E quella domanda di Pilato — “Chi volete che vi liberi: Gesù o Barabba?” — continua a risuonare per ogni uomo, in ogni tempo, davanti a ogni potere.