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Dentro la Passione (4a puntata): Pilato, il prefetto che non trova pace

di LUIGI GIRLANDA

Se c’è un personaggio della Passione di Gesù di Nazareth la cui esistenza storica non è mai stata messa in discussione nemmeno dagli studiosi più scettici, quello è certamente Ponzio Pilato. Prefetto della Giudea dal 26 al 36 d.C., il suo nome è attestato da fonti romane, giudaiche e cristiane. Tacito, Filone di Alessandria, Giuseppe Flavio, ma anche un’iscrizione archeologica rinvenuta a Cesarea Marittima nel 1961. Pilato è reale. È storia. È uno dei pochi personaggi di quel processo la cui presenza nei Vangeli non è frutto di tradizione orale ma di certezza documentata.

Da buon politico non cercava di occuparsi di religione. Come ogni governatore romano, voleva ordine, tranquillità e tasse pagate. Ma si trovò coinvolto in un processo sgradito. Il Sinedrio, il massimo organismo religioso ebraico, aveva già decretato la condanna a morte di Gesù per bestemmia. Ma non aveva il potere di eseguire la sentenza: spettava a Roma. Il ruolo di Pilato era quello di ratificare quella condanna. Eppure, fin dall’inizio, il prefetto comprese di trovarsi di fronte a un caso diverso.

Il Vangelo di Giovanni lo dice riconoscere l’innocenza di Gesù senza ambiguità: “Io non trovo in lui nessuna colpa” (Gv 18,38). La strategia dei capi religiosi fu però abile. Per ottenere la condanna, trasformarono l’accusa da religiosa in politica: Gesù non era solo un bestemmiatore per loro, ma un sedicente “re dei Giudei”. Era questo il nodo: in una provincia inquieta come la Giudea, Pilato non poteva permettersi di proteggere chiunque fosse accusato di aspirare a un trono, per quanto simbolico.

Il rischio, concreto e terribile, era che i capi del Sinedrio potessero scrivere a Roma accusandolo di proteggere un aspirante ribelle contro Cesare. Per un governatore, era il pericolo più grave: essere accusato di slealtà all’imperatore. Non per nulla, il Vangelo riferisce la frase-chiave dei capi religiosi: “Se liberi costui, non sei amico di Cesare” (Gv 19,12). Un avvertimento nemmeno troppo velato.

In questo contesto, Pilato giocò la sua carta più astuta: si appellò al privilegium paschale, di cui ci siamo già occupati parlando di Barabba. Bastava che la folla scegliesse Gesù, e Pilato avrebbe potuto liberarlo senza colpo ferire, scaricando la responsabilità sulla voce del popolo. Ma il piano fallì. A quel punto, rimaneva un’unica, disperata possibilità: far flagellare Gesù in modo brutale, sperando che la vista del corpo straziato bastasse a placare l’odio dei suoi accusatori. Una scelta non di pietà, ma di politica.

Anche questo, però, non servì a nulla.

Fatti che un pragmatico romano non poteva ignorare

La morte di Gesù di Nazareth, eseguita sulla croce secondo la prassi romana, non segnò la fine della vicenda per Ponzio Pilato. Al contrario, furono proprio gli avvenimenti successivi a porlo di fronte a fatti che, per un romano quasi superstizioso nei confronti dei segni naturali, non potevano essere liquidati con leggerezza.

I Vangeli registrano due fenomeni straordinari avvenuti nel momento della morte di Gesù: l’oscuramento del cielo per tre ore e un violento terremoto. Due eventi che, inseriti in una cultura come quella romana, dove ogni manifestazione anomala della natura poteva essere letta come segno divino o presagio, non potevano passare inosservati.

A questi fatti oggettivi si aggiunsero le testimonianze dei soldati presenti all’esecuzione. In particolare, i Vangeli riferiscono la reazione del centurione romano che, osservando il modo in cui Gesù era morto, esclama parole inusuali per un militare: “Davvero costui era Figlio di Dio” (Mc 15,39). Una frase che, più che esprimere una conversione, è segno della percezione che la morte di quel condannato aveva lasciato una impressione profonda anche nei testimoni romani, abituati alla brutalità delle esecuzioni pubbliche.

In questa logica va letto anche il curioso episodio, tramandato solo da Matteo (Mt 27,19), della moglie di Pilato che lo manda a chiamare per avvertirlo: “Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi fui molto turbata in sogno per causa sua”. Per una cultura come quella romana, razionale e pragmatica ma anche superstiziosa, i sogni potevano essere percepiti come presagi, ammonimenti da non sottovalutare. Non era raro che si prestasse attenzione a simili segnali, soprattutto in un clima già carico di tensione politica e religiosa.

Il sogno della moglie, più che un’illuminazione divina, fu per Pilato l’ennesimo elemento di turbamento. Non è escluso che l’episodio abbia richiamato, nella sua memoria, un altro sogno storico rimasto famoso a Roma: quello di Calpurnia, moglie di Giulio Cesare, che cercò di dissuadere il marito dall’uscire di casa nel giorno delle Idi di Marzo.

Ma Pilato, nonostante tutto, non si oppone. La sua vicenda è quella di molti uomini di potere: sanno dove sta la verità, ma non hanno la forza di schierarsi per essa. Sanno che una condanna è ingiusta, ma la firmano per quieto vivere, per calcolo, per timore.

Per questo Pilato è rimasto nella storia come il giudice che ha riconosciuto la verità ma non ha avuto il coraggio di difenderla.

Infine, Pilato ricevette una nuova visita da parte dei capi religiosi del Sinedrio. Questa volta per una richiesta che, dal punto di vista romano, era tutt’altro che comune: ottenere il permesso di vigilare la tomba di un giustiziato. La motivazione addotta era che Gesù aveva predetto la propria risurrezione, e si temeva che i suoi discepoli potessero trafugare il corpo per simulare un adempimento della profezia.

È importante sottolineare che Pilato, accettando di concedere la custodia del sepolcro a un manipolo di soldati, non stava solo compiendo un atto amministrativo. Di fatto riconosceva che attorno a quel morto continuava a persistere una tensione eccezionale. Gli stessi avversari di Gesù non si ritenevano ancora al sicuro, nonostante la condanna ottenuta.

Si trattava di elementi che, nel pragmatismo romano del Prefetto, non potevano che suscitare inquietudine. Gli eventi naturali straordinari, le reazioni dei soldati, le preoccupazioni dei capi religiosi: tutto contribuiva ad alimentare il senso che la vicenda di Gesù di Nazareth fosse tutt’altro che conclusa.

Il prefetto che la storia non ha più lasciato in pace

La fine storica di Ponzio Pilato conferma quanto le sue paure, in quei giorni di Pasqua a Gerusalemme, fossero tutt’altro che infondate. Temendo che la gestione del caso di Gesù potesse ritorcersi contro di lui davanti all’imperatore, Pilato aveva cercato in ogni modo di evitare uno scandalo. Eppure fu proprio un altro caso, sempre legato alla gestione violenta di una popolazione religiosa difficile — i Samaritani — a decretare la sua caduta.

Attorno al 36-37 d.C., Pilato intervenne duramente contro un gruppo di samaritani radunatisi sul monte Garizim per motivi religiosi. La repressione fu tale che i Samaritani, notoriamente più filo-romani degli ebrei, lo denunciarono al legato di Siria, Lucio Vitellio. Pilato fu richiamato a Roma per rendere conto dei suoi atti davanti a Tiberio. Quando giunse in Italia, Tiberio era morto da poco. Le sue tracce si perdono tra ipotesi di esilio, di destituzione, forse di suicidio. Ma il dato certo è che il rischio che Pilato aveva temuto nel caso di Gesù si concretizzò esattamente per le stesse ragioni: il malcontento locale e l’accusa di aver gestito male l’ordine pubblico.

Intorno alla sua figura, nel tempo, si è formata una vasta letteratura. Alcuni — come Anatole France — immaginarono un Pilato anziano, alle terme di Baia, che non ricorda nemmeno il nome di Gesù di Nazareth. Altri — come Gertrud von Le Fort — hanno scritto pagine intensissime, in cui è la moglie di Pilato a raccontare un sogno angosciante: quello di miliardi di uomini che, nei secoli futuri, continueranno a pronunciare ogni giorno il nome di suo marito, accanto a quello del crocifisso.

È questa l’ironia della storia. Pilato, che aveva tentato in ogni modo di non essere coinvolto, di lavarsene le mani, di scaricare su altri la responsabilità, è rimasto per sempre imprigionato nella vicenda di Gesù. Non per scelta sua. Non per merito suo. Ma per il semplice fatto di essere stato lì, in quel giorno, a giudicare l’innocente e a non avere avuto il coraggio di difenderlo.

Ed è per questo che nessun altro nome della Passione è stato ripetuto così ossessivamente. Non Caifa. Non Erode. Non i capi del Sinedrio. Solo lui. Solo Pilato. Perché solo lui è rimasto, suo malgrado, a garantire la storicità di quella crocifissione.

Da allora, e per sempre, la voce dei cristiani di ogni tempo e di ogni luogo continua a ripeterlo.

Patì sotto Ponzio Pilato.