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Dentro la Passione (5a puntata): Le donne al sepolcro, la prima testimonianza

di LUIGI GIRLANDA

Tutto, per la fede cristiana, comincia qui. Tutto dipende da un fatto avvenuto in un preciso momento della storia: la risurrezione di Gesù di Nazareth. San Paolo lo dirà con una lucidità che non ammette alternative: “Se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati” (1Cor 15,17). Non si tratta di una visione, di un simbolo, di un mito: si tratta di un evento. Storico. Oggettivo. Pubblico. O è accaduto, o tutto il cristianesimo si sgretola.

Ed è qui che sorge la domanda più clamorosa, quella che nessuno osa davvero affrontare: se la risurrezione fosse stata una menzogna, se il racconto fosse stato confezionato per nascondere la sconfitta del Crocifisso, chi mai avrebbe scelto come primi testimoni della tomba vuota… delle donne?

Nel mondo ebraico del tempo — e in quello greco-romano non era diverso — la parola femminile non aveva alcuna autorevolezza pubblica. Le donne non potevano testimoniare in tribunale. Non avevano diritto di parola negli affari religiosi o civili. Non erano ritenute credibili per natura. Eppure, proprio a loro è affidato l’annuncio iniziale. Proprio loro vedono per prime il sepolcro spalancato. Proprio loro ascoltano i primi messaggeri. E in alcuni casi — come nel Vangelo di Giovanni — vedono per prime il Risorto stesso.

Chi avrebbe mai pensato di costruire la colonna portante del cristianesimo su un fondamento simile? Chi avrebbe scelto, per reggere l’urto del mondo, testimoni considerate inaffidabili per definizione? Chi avrebbe scommesso la credibilità della risurrezione su volti marginali, su figure di secondo piano, su nomi senza peso?

Eppure è proprio questo che accade. E proprio per questo, come ha notato Vittorio Messori, quel dettaglio è il più potente indizio di autenticità storica. Nessuno avrebbe mai potuto inventarlo.

 

Quelle donne che nessuno è riuscito a togliere di mezzo

Non sono solo presenti. Sono centrali. In tutti e quattro i Vangeli, le donne sono protagoniste dell’alba di Pasqua. I nomi variano, i dettagli divergono, ma la sostanza è inamovibile: ci sono, e non si possono rimuovere. Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo, Salome, Giovanna… ma sempre, in primo piano, Maria di Magdala. La donna da cui, dice Luca, Gesù aveva scacciato sette demòni. Una figura dalla biografia discutibile, che mai nessun inventore di una religione avrebbe messo in testa a una catena di testimoni.

Eppure è lei — nel Vangelo di Giovanni — a incontrare per prima il Risorto. Ed è a lei che Gesù affida il primo messaggio da riferire ai discepoli: “Va’ dai miei fratelli e di’ loro…” (Gv 20,17). Un mandato solenne, un compito essenziale. Ma assegnato a chi, culturalmente, non poteva nemmeno entrare in aula per riferire un fatto.

Questi elementi, se presi con onestà intellettuale, mettono a dura prova ogni teoria complottista sulla Pasqua. Se davvero, come molti insinuano, i discepoli avessero inventato tutto per rimediare alla croce, avrebbero costruito un racconto molto più pulito, coerente, maschile. Avrebbero scelto Pietro, Giovanni, Giacomo. Avrebbero cancellato ogni traccia scomoda, ogni testimonianza ambigua. Invece, no. Le donne sono lì. E sono così incise nella memoria della prima comunità cristiana che non è stato possibile rimuoverle. Come dice Messori: “Non sono un’aggiunta successiva. Sono un dato originario. E impossibile da eliminare.”

Anche Paolo, che pure nelle sue lettere elenca le apparizioni del Risorto, omette ogni riferimento femminile. Non per smentire, ma per adattarsi a un contesto in cui quei nomi non avrebbero avuto peso. È un’omissione strategica, non un segno di invenzione. I Vangeli invece — proprio perché raccontano i fatti come sono accaduti — non possono fare a meno di riportare ciò che davvero avvenne. E ciò che davvero avvenne è che la fede cristiana, prima di passare per gli apostoli, passò per un gruppo di donne.

 

Una prova contro ogni logica umana

La presenza delle donne nei racconti pasquali non è solo un dettaglio. È una mina sotto la struttura stessa del racconto. Perché se davvero i discepoli avessero voluto inventare una storia credibile, non avrebbero mai messo loro al centro. Non perché le donne non siano degne — ma perché, in quel tempo, nessuno le avrebbe credute. Inserirle nei Vangeli come prime testimoni non è un colpo di scena, è un autogol. È un elemento che, anziché rafforzare la credibilità, la compromette. Un punto a sfavore. Un rischio. Una debolezza.

E proprio per questo — come osserva ancora una volta Messori — quella presenza è la più forte delle prove. Nessuno che voglia costruire una finzione parte da un fondamento così fragile. Nessun propagandista affida l’annuncio più rivoluzionario della storia a chi, secondo il mondo, non ha diritto di parola.

Le stesse reazioni delle donne non aiutano l’immagine. Non sono eroine. Non sono sicure. Non proclamano nulla dai tetti. Piangono. Fuggono. Tacciono per la paura. Maria di Magdala scambia il Risorto per il giardiniere. Le altre fuggono tremanti dal sepolcro, e per un momento — scrive Marco — “non dissero niente a nessuno, perché avevano paura” (Mc 16,8). Quale narratore, costruendo una leggenda per sostenere una fede nascente, avrebbe inserito questi dettagli? Quale mitografo avrebbe scelto testimoni così imperfetti?

La verità è che la Chiesa non ha inventato queste donne. Le ha ricevute. Le ha ereditate dalla realtà. E ha dovuto tenerle, anche quando sembravano scomode, anche quando sembravano inadatte. Perché c’erano. E nessuno è riuscito a toglierle di mezzo. Nemmeno i più zelanti copisti, nemmeno i più strutturati teologi. Perché quella mattina, la prima voce del Risorto fu per loro e udita solo da loro.

Le donne, l’unico Vangelo che non tradisce

In tutti i racconti della Passione, vero cuore del Vangelo, c’è una costante che non può passare inosservata: le figure femminili sono le sole a non tradire. In un contesto dove i discepoli fuggono, Pietro rinnega, Giuda consegna, Pilato si lava le mani, la folla preferisce un assassino al Messia, e i capi religiosi tramano la condanna… le uniche presenze fedeli sono donne.

Sono loro a seguire Gesù lungo la via del Calvario. Sono loro a piangere, non da lontano, ma ai piedi della croce. È una donna — la moglie di Pilato — che interviene, unica voce di giustizia nel cuore del palazzo. È una donna, la Veronica della tradizione, a sfidare i soldati per asciugare un volto sfigurato. E dopo la morte, quando tutto sembra finito, sono ancora le donne a tornare. Portano aromi, non proclami. Oli, non teorie. Tornano semplicemente perché amano. E trovano il sepolcro vuoto.

Questi racconti — così scandalosi, così anti-convenzionali — non possono essere invenzione. Non in una cultura in cui solo l’uomo contava, in cui la testimonianza femminile era carta straccia, in cui l’autorità era maschile per definizione. Nessun redattore antico avrebbe immaginato una religione che inizia con uomini che scappano e donne che restano. Nessun mitografo avrebbe costruito un racconto dove i primi portatori della notizia centrale della fede sono nomi senza potere, senza voce, senza status.

Oggi, ampi settori della neo-chiesa vorrebbero mettere la donna perfino sull’altare, perché proclami una nuova dottrina modernista e conforme ai gusti del tempo. I Vangeli, invece, l’hanno voluta all’alba di Pasqua, perché fosse la prima a dire ciò che solo Dio può realizzare: la vera e unica salvezza, quella dal peccato e dalla morte.