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Dentro la Passione (6a e ultima puntata): Il buon ladrone, il primo dei salvati

di LUIGI GIRLANDA

La storia di Disma, il condannato che non poteva più fare nulla, se non credere. E fu il primo a entrare in Paradiso.

Il primo salvato della storia

Nel dramma di una morte atroce ebbe una fortuna: le gambe spezzate, così da abbreviare la sofferenza che in alcuni casi durava anche giorni. Ma non fu quella, per quanto macabra, la sua più grande fortuna. Fu solo la più visibile. Perché l’altra, quella decisiva, non si vide dalle rocce del Golgota né dalle finestre dei palazzi di Gerusalemme. Quella fu promessa sottovoce, in un dialogo brevissimo, tra due condannati che stavano morendo appesi a poche braccia di distanza. Lui, Disma, crocifisso come ladro e forse assassino, fu il primo uomo della storia ad entrare in Paradiso con certezza assoluta. E non perché fosse buono, non perché avesse una vita esemplare alle spalle, non perché avesse qualcosa da offrire. Aveva solo la sua miseria, il suo corpo inchiodato, la sua voce tremante. Eppure bastò.

Quel giorno il Golgota era un luogo di condanna, di morte, di vergogna. Eppure proprio lì accadde qualcosa che avrebbe cambiato per sempre la storia dell’umanità. Lì, tra il legno della croce e le pietre di una collina fuori le mura, si compiva il segreto eterno di Dio: aprire di nuovo il Paradiso agli uomini. Perché da quel Venerdì Santo qualcosa era successo, qualcosa che nessuno ancora poteva immaginare fino in fondo: Cristo, morendo, aveva pagato il prezzo che nessun uomo poteva pagare.

Il dialogo che aprì il Paradiso

Lo trovarono ancora vivo quando i soldati salirono con le spranghe per spezzare le gambe ai crocifissi. Era la Parasceve, vigilia del grande sabato di Pasqua, e i capi dei sacerdoti avevano insistito perché nessun corpo restasse appeso oltre il tramonto. Una questione di decoro religioso. Il sangue e i cadaveri fuori delle mura della città santa erano uno scandalo che non si voleva sopportare nel giorno più solenne dell’anno. Così l’ordine dell’autorità romana, sempre compiacente con le richieste dei capi del Sinedrio, fu rapido: spezzare le gambe, accelerare la morte, togliere di mezzo quei condannati. Non un gesto di pietà, non un colpo di grazia pietoso: solo un necessario e macabro stratagemma per evitare disordini pubblici nel giorno più sacro degli ebrei. Gesù, quando arrivarono da lui, era già spirato. Gli altri due, no.

Chi era davvero il Buon Ladrone? I Vangeli non lo dicono, la tradizione gli ha dato un nome, Disma, e ha immaginato che fosse parte della banda di Barabba, arrestato forse insieme a lui, destinato quel giorno a morire accanto a Gesù. Di certo aveva vissuto da brigante, da uomo violento, da assassino e da resistente armato contro il dominio dell’odiata Roma su quello che era stato il Regno di Davide. Ma in quelle ore estreme comprende ciò che in pochi intorno alla croce capiscono: l’uomo inchiodato accanto a lui non è come loro. Non bestemmia, non maledice, non urla minacce. Sta morendo come un agnello condotto al macello. E allora Disma si stacca dal compagno di lotta armata Gestas, che ancora insulta e deride, e pronuncia poche parole che da sole valgono un destino eterno:

«Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,40-43).

Era la più breve e perfetta confessione della storia. Non cercava scuse, non invocava attenuanti, non si giustificava. Diceva la verità. Aveva peccato. Meritava quella pena. Eppure guardava a Gesù come all’unica speranza possibile. Quel “ricordati di me” non era un calcolo, era un grido di fede.

La morale della puntualità, non della globalità

Gesù non gli chiede altro. Non gli rimprovera nulla. Non gli impone prove di pentimento, opere buone, gesti di riparazione. A Disma non restava più nulla da fare. Mani inchiodate, piedi inchiodati, corpo straziato. Poteva solo credere. E credette. E tanto bastò. Nessun altro, nei Vangeli, ha ricevuto una promessa così. Nessuno ha sentito da Gesù stesso una certezza così assoluta. Non Pietro, non Giovanni, non Maria Maddalena. Solo un ladro morente, all’ultimo istante della sua vita.

È questo che fa tremare ancora oggi. La morale cristiana non è la morale della globalità, è la morale della puntualità. Non conta la media dei tuoi comportamenti, conta lo stato in cui Dio ti trova quando ti chiama. Non conta quanto sei stato giusto, ma quanto sei capace di riconoscerti peccatore nel momento in cui Dio passa e ti guarda. Perché Disma non aveva più tempo per rimediare, ma aveva ancora tempo per credere.

Per questo la sua storia è legata al Lunedì dell’Angelo. È lui il primo uomo ad entrare in Paradiso dopo la Pasqua di Cristo. È lui il primo frutto della vittoria sulla morte. È lui, un ladro pentito, la primizia della salvezza. Mentre i discepoli fuggivano, mentre gli apostoli erano nascosti, mentre le donne piangevano, il Paradiso si apriva per un uomo che nessuno avrebbe mai indicato come modello. Eppure quell’uomo ha saputo riconoscere la grandezza di Dio, ha visto in un uomo martoriato e irriconoscibile i segni della regalità. Dove tutti vedevano una corona di spine infamante, lui ha saputo scorgere una corona di gloria, riconoscendo il sovrano: ricordati di me – dice infatti – quando entrerai nel tuo regno!

E quel sovrano, unico vero Dio, ha fatto di Disma il primo santo canonizzato.

La reliquia e il messaggio per oggi

A Roma, nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, si conserva ancora oggi una delle reliquie più straordinarie e affascinanti della cristianità: l’intero braccio orizzontale della croce del Buon Ladrone. È lì, visibile, esposto, venerato da secoli. È stato studiato, analizzato, esaminato. Ed è considerato una delle reliquie più accreditate, tra le più sicure nella loro autenticità. Come se Dio avesse voluto lasciarci sulla terra un segno di quella croce diversa, la croce non del Giusto, ma del peccatore salvato. La croce di chi non aveva nulla da offrire se non la sua miseria.

Forse è questa la lezione più bruciante per la nostra epoca, che pensa che il bene e il male siano tali in misura delle proprie convinzioni personali. L’uomo di oggi crede che si possa andare in paradiso secondo i propri canoni morali e non secondo quelli di Dio. Molti si illudono che nel giorno del tremendo giudizio di Dio che attende ciascuno di noi (sì, anche me che scrivo, anche te che leggi), varranno le proprie idee di bene e male. Non vogliamo più essere ladri pentiti. Vogliamo essere ladri giustificati. Non vogliamo cambiare vita. Vogliamo che la nostra vita, qualunque essa sia, sia dichiarata buona a prescindere e riceva il sigillo dell’approvazione dell’Onnipotente. Ma Dio non fa sconti alla verità. Salva chi si riconosce peccatore, non chi pretende di essere già giusto. Il Vangelo è terribilmente semplice. La salvezza non si compra. Non si merita. Si riceve. Con mani nude. Anche mani inchiodate.

Il giorno del giudizio non sarà il giorno in cui dovremo convincere Dio della “bontà” delle nostre idee sbagliate sul bene e sul male. Sarà piuttosto il giorno in cui saremo davanti alla Verità senza sconti e capiremo che non contano le nostre idee di bene, ma il Bene.

Il Paradiso può essere certo anche dei ladri. Ma solo di quelli che, come Disma, hanno il coraggio di dire a Cristo, nell’ultimo respiro: ho sbagliato tutto, ricordati di me.