di LUIGI GIRLANDA
Le tre grandi virtù teologali – Fede, Speranza e Carità – sono oggi vittime di un processo di devastante ribaltamento. Da teologali, orientate cioè verso Dio come fine ultimo e fondamento di ogni atto umano, si sono trasformate in “antropologali”: una sorta di pallida imitazione umana, svincolata dalla Verità divina, ridotte a sentimenti vaghi e autocompiacenti, incapaci di trascendere l’orizzonte puramente terreno.
Teologali significa precisamente questo: provenienti da Dio e fondate su di Lui, perché Egli stesso ne è la sorgente e il compimento. La Fede si radica nella Verità rivelata da Dio, la Speranza poggia sulle promesse divine, e la Carità è partecipazione dell’Amore stesso di Dio.
Eppure, come avvenne con le tre parole d’ordine della Rivoluzione Francese – Liberté, Égalité, Fraternité – che pur mantenendo la forma linguistica furono completamente svuotate del loro significato cristiano, anche nella Chiesa si è verificato un simile processo. La Rivoluzione del 1789, in nome della libertà, instaurò il terrore; in nome dell’uguaglianza, generò la dittatura; in nome della fraternità, alimentò odio fratricida.
Allo stesso modo, il “1789 della Chiesa”, inaugurato sessant’anni fa, ha operato un ribaltamento delle virtù teologali. Fede, Speranza e Carità hanno mantenuto la stessa formulazione linguistica, ma si sono ribaltate nel loro esatto contrario. Come allora si è usato il linguaggio cristiano per introdurre il sovvertimento sociale, così oggi si usano le parole delle virtù per giustificare un sovvertimento dottrinale e morale senza precedenti.
Fede, dall’atto dell’intelletto all’inganno del sentimento
San Tommaso d’Aquino, nella Summa Theologiae, definisce la Fede come un “assenso dell’intelletto alla Verità rivelata da Dio” (Summa Theologiae, II-II, q.4, a.1). L’atto di fede, quindi, non è frutto di un’emozione passeggera o di un sentimento consolatorio, ma una scelta razionale, sostenuta dalla Grazia, di aderire a una Verità oggettiva e immutabile.
Oggi, invece, la Fede è diventata sentimento. Non più adesione alla Verità, ma un moto dell’anima che prescinde dai contenuti oggettivi. Ci si illude di credere quanto più si è distanti da quella che viene liquidata come “sterile dottrina”. Si assiste a celebrazioni svuotate di contenuto, dove la dottrina è un ostacolo e non più il cuore pulsante della Fede.
Sant’Agostino ammoniva: “Se credi solo in ciò che ti piace del Vangelo, non è al Vangelo che credi, ma a te stesso” (Contra Faustum Manichaeum, 32,16). Eppure, nella nuova pastorale dei sentimenti, l’essenziale è sentirsi in pace, non più essere in Grazia. L’importante è “stare bene con se stessi,” anche se questo significa abbandonare ogni fondamento dogmatico.
La Rivoluzione della Fede ha mantenuto il nome, ma ha cambiato il significato. È passata dall’adesione a una Verità oggettiva alla celebrazione dell’esperienza personale. Ci si vanta di una fede adulta, capace di mettere in discussione tutto, persino i dogmi; e questa si definisce “maturità spirituale”. In realtà, è solo l’arroganza di un modernismo penetrato nel cuore della Chiesa, che ha sostituito la Verità con il sentire, il dogma con l’opinione, l’adorazione con la celebrazione di se stessi.
Speranza, dal fondamento teologico all’illusione personale
Se la Fede si è trasformata in un vago sentire, la Speranza ha subito un destino ancora più tragico: è diventata un alibi. Speranza non significa “aspettare”, ma attendere operando, in collaborazione con la Provvidenza. San Paolo insegna: “Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera” (Rm 12,12). La Speranza cristiana è ancorata alla promessa di Cristo, una promessa certa, fondata sull’evento della Risurrezione.
Oggi, invece, si è ridotta a una sorta di pia illusione. Alla domanda su come affrontare la crisi della Chiesa, la risposta tipica del cattolico moderno è: “Ma io ho speranza in Dio.” Una risposta che, lungi dall’essere manifestazione di fiducia, è spesso un alibi per non fare nulla.
Immaginiamo una casa in fiamme. Le fiamme si alzano, il fumo è denso e nell’edificio ci sono dei bambini intrappolati. Chiunque si troverebbe a gridare, a cercare aiuto, a fare qualunque cosa per salvarli: chiamare i pompieri, prendere un estintore, gettare secchiate d’acqua, urlare per chiedere soccorso. Eppure, nella logica della “speranza illusoria”, si potrebbe affermare con calma glaciale: “Io ho speranza che Dio intervenga.”
Sant’Ambrogio lo spiegava con forza: “Dio non vuole le mani inerti, ma operose; non vuole chi si siede e aspetta, ma chi si alza e agisce” (De Officiis, I, 2).
Eppure, nel “1789 della Chiesa”, la Speranza è stata ridotta a una sorta di fatalismo paralizzante, un’attesa vuota che giustifica l’inerzia. La Speranza moderna è divenuta “attendere senza agire”, una rassegnazione mascherata da fiducia.
Carità, da bene assoluto alla carità crudele
La Carità, l’apice delle virtù teologali, è forse la più travisata di tutte. Da sempre la Chiesa ha insegnato che “la Carità è amore di Dio sopra ogni cosa e del prossimo per amor Suo”. Non un amore generico, non un sentimentalismo privo di giudizio, ma un atto di volontà che si concretizza nel bene reale dell’altro, cioè nella salvezza della sua anima.
Oggi, invece, viviamo un’epoca di quella che potremmo definire “carità crudele”, una parodia satanica della vera Carità. Essa non si preoccupa della Verità, né della salvezza eterna, ma si concentra esclusivamente sul “benessere materiale” o su una pace sociale priva di fondamento morale. Si sostiene il peccatore nel suo peccato, si celebra la menzogna con il pretesto dell’accoglienza, si nega il dovere di correggere chi vive nell’errore.
San Giovanni Crisostomo ammoniva: “Non correggere il peccatore non è solo mancanza di carità, è tradimento”(Homiliae in Acta Apostolorum, Hom. 20, 4).
Il modernismo come origine del ribaltamento
Quello che abbiamo definito il “1789 della Chiesa” non è frutto del caso, ma di un progetto ben preciso: il modernismo. Già San Pio X lo definì “sintesi di tutte le eresie” (Pascendi Dominici Gregis, 1907), riconoscendolo come il tentativo di svuotare le verità divine per adattarle al sentire umano. È un progetto di secolarizzazione interna, che ha mantenuto la forma delle parole, ma ne ha sovvertito il significato.
San Gregorio Magno denunciava con forza il “silenzio dei pastori”, che considerava causa di rovina per le anime: “Non è la spada del persecutore che miete le anime, ma il silenzio del pastore” (Homiliae in Evangelia, 17, 3).
Il modernismo, nel suo tentativo di “aggiornamento”, ha ridotto la Fede a sentimento, la Speranza a illusione e la Carità a sterile filantropia. Ciò che resta sono simulacri privi di Verità, parole vuote che mascherano il vuoto dottrinale. Nel futuro prossimo della vera Chiesa, queste tre virtù dovranno ritrovare il loro significato teologale, o non saranno altro che le maschere linguistiche di un inganno dissolutore.
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