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Giovedì Santo: La verità sui Sepolcri che visitiamo

di LUIGI GIRLANDA

Una formula antica, un equivoco moderno

Ogni Giovedì Santo, anche a Gubbio, si ripete la consueta espressione: “Andiamo a visitare i Sepolcri.” Ma chi ci riflette un istante si accorge subito della contraddizione: Gesù non è ancora morto. Perché parlare di sepolcri?

In realtà, la formula ha radici antiche, risalenti al Medioevo, quando il popolo cristiano – con quella sapienza simbolica che spesso supera le spiegazioni dotte – ha cominciato a chiamare “sepolcri” gli altari della reposizione, cioè i luoghi in cui, al termine della Messa in Coena Domini (quella appunto del Giovedì Santo sera), si ripone solennemente il Santissimo Sacramento per l’adorazione.

Non si tratta, evidentemente, di una tomba. Ma la Chiesa, spogliata delle sue luci, con l’altare nudo e il tabernacolo aperto, comunica una solennità drammatica, un’attesa carica di mistero. Da qui il nome popolare: un sepolcro vivo, silenzioso, in cui Gesù è nascosto ma presente, vegliato dai fedeli.

Il linguaggio della pietà contro quello della liturgia

Va chiarito che la liturgia della Chiesa non ha mai parlato di “sepolcri”, ma solo di “altari della reposizione”. Tuttavia, il linguaggio affettivo e immaginifico della pietà popolare ha conservato quel termine forte, capace di evocare l’abbandono, la solitudine, il silenzio del Getsemani. In fondo, proprio nella notte del Giovedì Santo comincia la Passione, con il tradimento di Giuda, l’arresto, la fuga dei discepoli.

Visitare il “sepolcro” è, per chi sa cosa sta facendo, una veglia di adorazione, un gesto di amore, di custodia, quasi a riparare l’abbandono. È la risposta alla domanda che Gesù rivolge ai suoi discepoli nel momento più drammatico della notte:
“Così non siete stati capaci di vegliare un’ora sola con me?” (Mt 26,40).
Una domanda che attraversa i secoli e arriva fino a noi.

La superstizione dei numeri dispari: un’offesa a Dio

Proprio in questo gesto sacro si è infiltrata, anche a Gubbio, una superstizione tanto ridicola quanto offensiva: l’idea che si debbano visitare un numero dispari di sepolcri. È uno di quei casi in cui la superstizione contamina la vera religione, trasformando un atto di fede in una pratica magica.

Non si tratta solo di ignoranza: è un peccato contro il primo comandamento, perché attribuisce un valore sacrale a un numero, come se la grazia dipendesse dalla cabala e non dalla fede. È il tipico frutto di una religione svuotata di contenuto e nutrita solo di forme. In altri tempi, questi errori venivano corretti dal pulpito. Oggi li si accetta con indulgenza, nel nome del “rispetto delle tradizioni”.

Chi ha distrutto il senso delle cose sante?

Non ci si stupisca troppo: tutto questo è figlio diretto della nuova liturgia, pensata – si diceva – per farsi capire meglio dal popolo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: un popolo che non capisce più nulla. Che non distingue l’altare dal tavolo, la veglia dalla gita, il Sacramento dal simbolo.

La liturgia autentica, quella della Chiesa di sempre, formava il popolo con i segni, parlava attraverso la bellezza, l’ordine, il silenzio. La nuova liturgia ha invece smarrito il senso del mistero e della sacralità, lasciando spazio a superstizioni, abitudini vuote, e a un vago sentimentalismo che non converte nessuno.

La verità è semplice: non conta quante chiese si visitano, né se siano dispari o pari. Conta se si è consapevoli di Chi si va ad adorare.