di LUIGI GIRLANDA
Mercoledì prossimo, 7 maggio 2025, inizierà il conclave. Un evento nell’aria da mesi, quando già si ipotizzavano le dimissioni di Bergoglio per i noti problemi di salute che purtroppo lo affliggevano da tempo. Non a caso, perfino Hollywood – sempre pronta a fiutare l’occasione – lo scorso dicembre ha rilanciato il tema con il film evento dell’anno, intitolato proprio Conclave. La pellicola, basata sul romanzo di Robert Harris, esplora proprio le dinamiche e le tensioni di un’elezione papale immaginaria, cogliendo molte delle complessità che caratterizzano questo processo secolare. Segno che la parola conserva ancora un’aura di mistero, tensione e solennità, anche per un mondo che della Chiesa ha ormai dimenticato quasi tutto.
La parola “conclave” affascina e intimorisce: evoca porte chiuse, antiche ritualità e decisioni che cambiano la storia. Ma da dove nasce questa pratica tanto solenne quanto misteriosa? Molto probabilmente la prima volta che i cardinali vennero chiusi a chiave durante un’elezione papale accadde proprio vicino a noi, a Perugia, nel 1216. I porporati erano riuniti per scegliere il successore di papa Innocenzo III e, secondo le cronache, furono gli stessi cittadini, esasperati dalla lentezza dell’elezione, a serrare le porte e a impedire ai cardinali di uscire finché non avessero fatto il loro dovere. Da questo episodio nasce il termine latino cum clave, “con la chiave”, che oggi indica appunto il conclave.
Il precedente più noto è però quello di Viterbo, dove dal 1268 al 1271 si tenne l’elezione più lunga della storia: 1006 giorni di attesa. I cittadini, stanchi e scandalizzati, scoperchiarono il tetto del palazzo papale e ridussero i cardinali a pane e acqua. Il risultato fu l’elezione di Gregorio X, che subito dopo regolamentò ufficialmente l’elezione papale con la costituzione apostolica Ubi periculum, stabilendo norme rigorose per impedire manovre politiche e ritardi.
Altro che clericalismo. Un tempo i fedeli erano cattolici, non clericali. Non si facevano scrupoli a tirare giù un tetto o a chiudere a chiave i cardinali se questi tergiversavano. Avevano ben chiaro che la fede non si serve con i titoli ecclesiastici, ma con la verità. Oggi invece – come abbiamo visto anche in questi giorni – pare che molti ritengano che essere cattolici significhi assecondare acriticamente ogni posizione ecclesiastica, qualunque cosa venga detta o fatta. Ma non è così che si misura la fede. Un cattolico non è tale se sta dalla parte del prete, ma se rimane ancorato alla dottrina di sempre. E quando un prete – o un vescovo, o un cardinale, perfino un papa – devia dalla retta dottrina, non è lui ad avere ragione solo perché ha la tonaca o la tiara. È il fedele che ha il dovere di restare saldo nella verità, anche se resta solo.
Oggi il conclave è regolato con estrema precisione dal diritto canonico e dalla costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, emanata da Giovanni Paolo II nel 1996. Ma prima che i cardinali elettori vengano rinchiusi nella Cappella Sistina, c’è una fase importante che si svolge pubblicamente: sono le cosiddette “congregazioni generali”, riunioni in cui tutti i cardinali già presenti a Roma – anche gli ultraottantenni, che non votano – si confrontano sulle sfide della Chiesa e sull’eredità del pontificato appena concluso. Sono incontri che, ufficialmente, servono a condividere informazioni e a prepararsi spiritualmente all’elezione. Ma da anni si discute sul fatto che proprio in questi giorni si gettino le basi di intese, alleanze e vere e proprie manovre, pur vietate dalle norme. La legge della Chiesa è chiara: nessun patto deve precedere l’elezione. Ma il confine tra “conoscersi” e “organizzarsi” è sottile. E spesso è proprio in questi dialoghi informali che prende forma il profilo del futuro papa.
Il conclave vero e proprio inizia pochi giorni dopo l’avvio delle congregazioni. I cardinali elettori, cioè quelli che non hanno ancora compiuto 80 anni, vengono condotti nella Cappella Sistina, dove dovrebbero restare isolati da ogni contatto con l’esterno. Sono alloggiati alla Domus Sanctae Marthae, ma ogni spostamento è controllato. Le votazioni si tengono per scrutinio segreto: due al mattino e due al pomeriggio. Serve una maggioranza qualificata di due terzi per l’elezione.
Spesso si sente dire che il numero massimo di elettori è 120, e qualcuno ha avanzato il sospetto che, essendo oggi i cardinali in età da conclave ben più numerosi, il conclave potrebbe risultare invalido. Non è assolutamente così. È vero che Giovanni Paolo II fissò il numero di 120 nella costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, ma lo stesso documento specifica con chiarezza che ogni cardinale che non ha compiuto 80 anni ha diritto di voto. Dunque, semmai il problema andava affrontato prima, al momento della creazione dei cardinali: ma anche Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Bergoglio hanno regolarmente superato quel limite numerico. A riprova del fatto che il numero di 120 è sempre stato interpretato come indicativo, non vincolante. Nessun dubbio, quindi, sulla validità del prossimo conclave, almeno per quanto concerne il numero effettivo dei partecipanti.
In un tempo in cui ogni elezione è preceduta da sondaggi, comunicazione strategica e accordi più o meno occulti, il conclave resta – almeno sulla carta – uno degli ultimi gesti fuori dal tempo. Un rito in cui silenzio, preghiera e discernimento dovrebbero avere la meglio su tattiche e correnti. Ma la storia insegna che l’umano e il divino si intrecciano anche tra le mura della Sistina. E che ogni elezione è sempre anche lo specchio del tempo che la produce.
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