Non a caso, soprattutto a partire dagli anni Novanta, anche dalle nostre parti, si è diffusa pericolosamente una concezione sociale del cristianesimo che nulla ha a che fare con l’autentica dottrina cattolica. A volte si parla di un primato della prassi, quasi a voler sostituire l’azione allo studio, come se la dottrina fosse una sorta di zavorra inutile, una mancanza di carità. Lo studio del catechismo viene ridotto a un tecnicismo sterile, privo di carità concreta. Si contrappone la verità alla carità, come se contasse solo il fare. Un fare emotivo, svincolato dall’adesione alla dottrina, che invece dovrebbe orientare l’agire. La prassi diventa fine a sé stessa, un attivismo che non si preoccupa di sapere perché si agisce, ma soltanto come, in una sorta di esaltazione dell’azione per l’azione.
Questa mancanza di radicamento dottrinale caratterizza, purtroppo, gran parte del mondo cattolico giovanile attuale, che agisce senza fondamento, mosso più dall’emozione che dalla verità. Tutto questo sotto le insegne di una Chiesa dei poveri, uno slogan svuotato di ogni radice evangelica, che prolifera ancora oggi in tanti gruppi giovanili. La retorica della povertà sostituisce la ricerca della Verità, e la prassi militante si erge a dogma di fede.
La Rerum Novarum nasce in un contesto di forti tensioni sociali, segnate dall’avanzata del socialismo e del comunismo. Leone XIII denunciò con lucidità il falso mito della lotta di classe e del collettivismo, affermando il diritto naturale alla proprietà privata. Scrive chiaramente che “il diritto di possedere come proprio ciò che si è guadagnato col proprio lavoro o ricevuto dagli altri è un diritto naturale, che lo Stato non può sopprimere“.
Questa affermazione risuona oggi come un monito contro chi vorrebbe fare della Rerum Novarum un manifesto di giustizia sociale marxista. Leone XIII rifiuta categoricamente l’abolizione della proprietà privata e, anzi, la difende come elemento indispensabile per l’ordine sociale e la dignità dell’uomo.
Negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, alcuni settori della Chiesa hanno reinterpretato la Rerum Novarum in chiave marxista, gettando le basi per letture distorte che avrebbero poi ispirato movimenti ideologici. Questo ha portato a un progressivo svuotamento della dottrina sociale autentica, sostituita da un attivismo privo di fondamento teologico e da una retorica pauperista che ha elevato la povertà a valore assoluto, svincolandola dal suo significato evangelico.
Il miserabilismo post-conciliare e la mistificazione della povertà
Ma c’è un’altra distorsione ancora più subdola, e riguarda proprio il concetto di povertà. Oggi, una larga parte del mondo sedicente cattolico sembra aver smarrito il vero senso dell’enciclica. Si è passati da una difesa della dignità del lavoro e della proprietà privata a una forma di pauperismo esasperato. Questo “miserabilismo”, figlio della confusione dottrinale post-conciliare, esalta la povertà come uno stato quasi mistico, da idolatrare.
Non è più la povertà evangelica, quella che Cristo ha definito “povertà di spirito”, ossia il riconoscimento della propria dipendenza da Dio e l’abbandono delle false sicurezze materiali. Oggi la povertà viene trattata come una condizione economica da idolatrare, un simbolo vuoto di purezza che poco ha a che fare con il Vangelo autentico.
La vera povertà cristiana è un distacco interiore, un affidamento alla Provvidenza di Dio, non una condizione economica di sofferenza. Ma questa lettura è stata travisata da chi, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, ha voluto vedere nel pauperismo una nuova identità ecclesiale. Da qui nasce un paradosso: chiese spoglie, altari privati di ogni decoro, liturgie ridotte all’essenziale in nome di una “Chiesa povera per i poveri”. Un’estetica della povertà che giustifica una teologia dell’abbandono e dell’impoverimento liturgico.
Questo miserabilismo post-conciliare ha costruito un idolo: il povero non come persona da aiutare e redimere, ma come vessillo politico, come simbolo da agitare nelle piazze della protesta sociale. E così, mentre si predica una povertà che diventa ideologia, si perdono di vista i veri bisogni dell’anima. Non la povertà materiale, ma quella spirituale — il riconoscersi bisognosi di Dio, mendicanti della Sua misericordia.
La Rerum Novarum che non conoscono
Questa lettura distorta, figlia dell’ideologia pauperista, si è riversata anche sull’interpretazione della Rerum Novarum. Si parla di giustizia sociale, di equità economica, di redistribuzione forzata dei beni, come se Leone XIII avesse anticipato i principi di Marx. Nulla di più falso. La Rerum Novarum è l’opposto di questa narrazione moderna. Non invoca l’uguaglianza economica, ma la giustizia sociale basata sul rispetto del lavoro e della proprietà. Non idolatra la povertà, ma chiede che chi lavora possa vivere dignitosamente.
Eppure, quanti di coloro che pontificano sull’enciclica l’hanno davvero letta? Non basta citarla per comprenderne il suo spirito. Paradossalmente, molti di coloro che citano frequentemente la Rerum Novarum raramente ne approfondiscono il contenuto originale, preferendo basarsi su interpretazioni già filtrate da prospettive ideologiche contemporanee. È più comodo parlare della Rerum Novarum senza averne letto una sola riga, trasformandola in un idolo propagandistico per battaglie sociali che nulla hanno a che fare con il pensiero di Leone XIII.
La Rerum Novarum autentica è una spina nel fianco per chi vorrebbe un cristianesimo social-comunista, un pauperismo ideologico che idolatra la miseria anziché combatterla. Ma la verità, nero su bianco, è lì: basta leggerla davvero.
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