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La morte di Gesù, dalla verità storica al significato autentico

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Ldi LUIGI GIRLANDA

Il Venerdì Santo è il giorno della morte di Gesù. Gli storici ormai sono unanimi nel ritenere che questa avvenne il 7 aprile dell’anno 30. Gesù aveva 36 o, più probabilmente, 37 anni (è noto che la data della sua nascita fu “posticipata” di sei o sette anni, per errore, dal monaco Dionigi il Piccolo nell’elaborazione del nostro calendario). In tutto il mondo imperava Tiberio Giulio Cesare Augusto, secondo imperatore romano della dinastia Giulio-Claudia. La morte avvenne all’ora nona (le tre del pomeriggio) a seguito del supplizio più tremendo che sia mai stato escogitato dall’uomo: la crocifissione. Supplizio a cui non poteva essere sottoposto, data l’infamia e la brutalità che comportava, nessun cittadino romano.

Una volta pronunciata la terribile sentenza, “in crucem ibis”, il condannato perdeva qualunque dignità umana e diventava “res”, cosa, in mano ai suoi carnefici, i quali non disdegnavano certo di dar sfogo a tutte le loro macabre fantasie per infliggere al suppliziato le più atroci sofferenze. Basti un solo esempio: la coronazione di spine subita da Gesù. Il medico Nicola Partipilo, che qualche anno fa, sulla base degli indizi presenti nei racconti evangelici, ha stilato una precisa ricostruzione medico legale della morte di Gesù, ha scritto: “Ognuno provi a pungersi il cuoio capelluto con un semplice spillo e scoprirà con dolore che si tratta di una delle parti del corpo più sensibili agli stimoli, visto che serve a proteggere la testa. È anche ricco di vasi sanguigni, specie sulla fronte”.

Immaginiamo dunque l’effetto di un casco di spine, con conseguente dolore lancinante e fuoriuscita di sangue che scende a fiotti e finisce negli occhi. Risparmiamo ai lettori gli ulteriori dettagli, ricostruiti con lodevole competenza e scrupolo scientifico dal dottor Partipilo, circa gli strumenti usati per la macabra flagellazione, la modalità ideata per conficcare i chiodi nella parte più sensibile dei polsi, il lento soffocamento dovuto al peso del corpo appeso alla croce e mille altre atrocità. 

Non sono mancati, ovviamente, nel corso dei secoli, i soliti “ateucci ideologici” che hanno provato a negare la storicità del fatto. Tentativo patetico, visto che non solo gli indizi di storicità, ma soprattutto la logica impone di arrendersi all’evidenza dei fatti. Se davvero i Vangeli non fossero altro che racconti leggendari elaborati da alcuni fanatici religiosi del tempo, noi dovremmo avere dei testi completamente diversi da quelli che abbiamo. Jean-Jacques Rousseau, l’inquietante e insospettabile filosofo e pedagogista dell’epoca illuminista, replicava ai negatori della storicità dei vangeli: “Signori, non è così che si inventa!”.

In effetti, basta sfogliare i Vangeli per accorgersi che gli autori sono come “costretti”, loro malgrado, a raccontare una storia che vorrebbero si fosse svolta in tutt’altro modo. Raccontano di un messia che, contrariamente all’aspettativa ebraica, non solo non è un liberatore di Israele, ma addirittura è sconfitto e ucciso secondo il macabro rituale che, quegli stessi dominatori da cui avrebbe dovuto liberare il suo popolo, riservavano agli schiavi. Raccontano di un messia che non solo non è vittorioso, ma non ha nemmeno la resistenza fisica di un normale condannato a morte, tanto che i soldati devono costringere un passante qualsiasi ad aiutarlo a portare la sua croce.

Gesù muore dopo “sole” tre ore di agonia, tanto che quando vanno a chiedere il corpo a Pilato per la sepoltura, il procuratore romano – tragicamente esperto di cosa significasse morire sulla croce – “si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo” (Mc. 15, 44). I vangeli raccontano di un messia che sulla croce sembra come perdere la fede, tanto da gridare: “Dio mio, perché mi hai abbandonato?” – dando quasi ragione ai suoi denigratori che dicevano “se è il Figlio di Dio lo liberi Lui”. Ma che razza di falsari sono questi evangelisti, se inventano episodi che danno ragione ai negatori della fede? È dunque la ragione, quella stessa di Rousseau, non certo la fede che ci impone di dire: “non è così che si inventa”. I negatori della storicità dei vangeli sono dunque “sistemati” persino dal “loro” amico Rousseau. 

I racconti evangelici devono però interrogare profondamente proprio il credente, soprattutto alla luce delle profonde sofferenze che il Figlio di Dio ha accettato di subire. Nella crisi di fede e di cultura che sta attraversando il mondo cattolico, molti dimenticano le più elementari verità del catechismo. Sarà utile allora riflettere su due “domandine e risposte” del mai abbastanza rimpianto catechismo di san Pio X. Chiedeva infatti quel santo papa: Era necessario che Gesù patisse tanto? Risposta oggi drammaticamente dimenticata: “No, non era assolutamente necessario che Gesù patisse tanto, perché il minimo dei suoi patimenti sarebbe stato sufficiente alla nostra redenzione, essendo ciascun suo atto di infinito valore”.

Ecco allora la logica domanda seguente: Perché dunque volle Gesù patir tanto? Ed è su questa risposta che ogni vero credente dovrebbe meditare ogni minuto della sua vita: Gesù volle patir tanto per soddisfare più abbondantemente alla divina giustizia, per dimostrarci maggiormente il suo amore, e per ispirarci il più grande orrore al peccato.