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L’alterazione del Padre Nostro. Riflessione di Ubaldo Emanuele Scavizzi

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Ubaldo Emanuele Scavizzi

di Ubaldo Emanuele Scavizzi

E’ recente la modifica del Padre Nostro voluta da Papa Bergoglio, il cui fervore nell’inseguire le masse sempre più incolte lo ha spinto, invece di cercare di spiegare loro la complessa tradizione cristiano-cattolica, piuttosto ad alterarla profondamente, pur di renderla edulcorata e più accetta anche a chi si è sempre professato ateo o anticristiano o semplicemente ha una conoscenza sommaria e superficiale della Bibbia e dei Vangeli.

L’episodio più clamoroso è la recente modifica della preghiera dettata da Gesù stesso e riportata per intero nel Vangelo di Matteo (Mt. 6, 7-13), il Padre Nostro; essa è stata modificata in due parti:

1) (Mt. 6, 12) la preghiera che abbiamo sempre recitato diceva: “E rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, modificata in: “E rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”;

2) (Mt. 6, 13) da quando la Messa si officia in italiano, questa parte diceva: “E non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male”, oggi modificata in: “E non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male”.

Prima di proseguire, occorre fare alcune indispensabili precisazioni.

Per quanto riguarda il Nuovo Testamento della Bibbia (Tà Biblìa significa “I libri”), è tutto scritto in Greco. Solo il Vangelo di S. Matteo, secondo la concorde testimonianza degli antichi, fu scritto originariamente in aramaico, lingua parlata dai Giudei, ma tale originale andò completamente perduto, giungendo a noi la sola traduzione greca.

Si chiama “Vulgata” la versione latina della Bibbia compiuta in gran parte da S. Girolamo e così nominata da Erasmo da Rotterdam a causa della sua grande diffusione che la rese popolare, comune. Il Concilio di Trento l’ha dichiarata in senso disciplinare e giuridico autentica, per la sua conformità sostanziale con il testo originale, senza con ciò negare che vi possano essere delle imperfezioni rispetto a tale testo.

Per questi motivi, è indispensabile risalire fino all’originale greco, passando all’occorrenza per la versione latina (utilizzata qui, fra le altre consultate, quella pubblicata nel sito del Vaticano:

https://www.vatican.va/archive/bible/nova_vulgata/documents/nova-vulgata_nt_evang-matthaeum_lt.html#6), per dissertare sulle modifiche volute da Bergoglio e su quella che avrebbe invece potuto essere ragionevolmente introdotta, cosa che invece non è stata fatta sempre, ritengo, in ossequio a una volontà di semplificazione che sconfina nell’alterazione.

Il testo greco cui ci si riferisce è il Codice Vaticano B, 03, un manoscritto prezioso del 350 circa d.C., considerato come il migliore testimone di una buona tradizione testuale, affermatasi in Egitto probabilmente nella città di Alessandria intorno all’anno 175 d.C.. Alla medesima famiglia appartengono il Codice Sinaitico e alcuni papiri antichissimi come P4, P54.67, P75.

Certamente, anche secondo gli esperti è impossibile risalire al “testo originario” attraverso i numerosi codici a noi pervenuti, in modo da ricostruirne il tenore verbale, ma tant’è: bisogna scegliere la strada che appare più logica, quella del codice Vaticano B, 03, che è servito come testimone base per la maggior parte delle edizioni critiche a partire da quella di B.F. Westcott – F.J.H. Hort (1881).

E veniamo dunque al nocciolo della questione.

La prima modifica è effettivamente aderente sia al testo greco che a quello latino: infatti, il testo greco, traslitterato, recita: “kài àfes emìn tà ofeilémata emòn, os kài emèis afékamen tòis ofelèitais emòn” in cui la seconda parte, os kài emèis afékamen tòis ofelèitais emòn significa appunto: “come anche noi (li) abbiamo rimessi ai nostri debitori”; parimenti, il più noto testo latino, recita: “et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris”, con il significato esatto inserito, come detto, nella modifica recente voluta da Bergoglio.

La seconda modifica, appare come un errore inserito per cercare di correggere, malamente, un altro errore.

Infatti, nel passaggio dal testo latino “et ne inducas nos in tentationem, sed libera nos a malo” (che in realtà nel latino corretto è “et ne inducas nos in temptationem, sed libera nos a malo”) alla traduzione italiana, si incorse in un errore dovuto a uno di quelli che al Liceo si chiamano “falsi amici”, cioè parole simili in due lingue diverse, ma che in realtà hanno significati differenti; in questo caso, tempationem è stato tradotto come tentazione, con il risultato che la frase “non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male”, può far sembrare che Dio induca l’uomo nella tentazione del maligno, cosa evidentemente assurda, alla quale Bergoglio ha cercato di rimediare mettendo – come si dice – una toppa che è peggio dello strappo.

Infatti, in latino, il vocabolo temptatio ha come primo e prevalente significato quello di tentativo, prova, come del resto il vocabolo utilizzato nella più antica versione greca, che fu tradotto in latino con temptatio, è peirasmòs (nel testo, all’accusativo peirasmon), che significa appunto tentativo, esperimento, prova.

Da quanto sopra si deduce chiaramente che l’invocazione: “ne inducas nos in tempationem” del Padre Nostro, (in Greco “kài mè eisenènkes emàs eis peirasmòn) sia in Latino che in Greco significa “non ci spingere verso la prova”, che nulla ha ovviamente a che vedere con una induzione dell’uomo al peccato da parte di Dio stesso, come potrebbe sembrare dalla cattiva traduzione italiana.

Si prega cioè Dio di non chiedere all’uomo continue prove della sua fedeltà, come accade spesso nella Bibbia, dove per esempio Dio mette alla prova Abramo chiedendogli di sacrificargli addirittura suo figlio Isacco (Genesi 22,1-18), ma piuttosto (“libera nos a malo”), di liberarci dal maligno.

Ecco che quindi che la modifica voluta da Bergoglio, “e non abbandonarci alla tentazione” è un netto stravolgimento del testo evangelico originale.

Una modifica che invece andava fatta, anche qui a correzione della cattiva traduzione in italiano degli antichi testi manoscritti, è la parte che in italiano recita: “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, che invece nel testo greco originale è: “ton àrton emòn ton epioùsion dòs emìn sémeron”, o, nel calco latino: “panem nostrum supersubstantialem da nobis hodie”.

È del tutto evidente che la traduzione italiana svilisce e immiserisce il passo, come se si chiedesse a Dio di darci da mangiare ogni giorno, mentre nei testi originali greco e latino si chiede a Dio di dare all’uomo ogni giorno il pane che proviene dall’alto, celeste, che è al di sopra della sostanza materiale, ovvero che dà sostentamento all’anima immortale che è dentro di noi.

In questo caso, purtroppo, Bergoglio non ha messo mano ad alcuna modifica, forse proprio perché la traduzione corrente, così come la più rilevante delle altre due modifiche viceversa apportate, risulta più semplice e – per così dire – più comprensibile per le masse, anche se non aderente al testo originario.